Un passato imperfetto


un passato imperfettoTitolo: Past Imperfect
Autore: Julian Fellowes
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 2008
Titolo in Italia: Un passato imperfetto
Anno di pubblicazione ITA: 2009
Trad. di: Massimo Ortelio

Il nostro narratore – mentre leggevo non mi sono posta il problema, ma col senno di poi mi rendo conto che il soggetto in questione non viene mai chiamato una volta  per nome (?) – viene convocato del suo amico Damian Baxter. Nulla di anormale se non fosse che i due, dopo un brutto litigio – anche se poi verrà piano piano fuori che forse non si sono mai sopportati -, non si sentono da anni e che uno dei due (Baxter) è sostanzialmente in fin di vita.
Non ci girerò intorno come non ci gira intorno Damian Baxter: il motivo per cui ha convocato il nostro narratore è preciso e molto urgente. Egli dovrà, infatti, rintracciargli cinque donne con le quali Damian è andato a letto e dalle quali sospetta d’aver avuto un figlio (o una figlia). Perché? Primo, perché una lontanissima – nel senso di datata negli anni – e arrabbiata lettera anonima gli conferma l’esistenza di questa discendenza; secondo, perché Damien sta per morire e ha bisogno di lasciare tutti i suoi averi (moooolti averi) al figlio o alla figlia. Il narratore accetta: primo, perché questo tuffo nel passato serve anche a lui e secondo perché come può rifiutare qualcosa di così delicato a un uomo morente?

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Con un attento rimpallo tra presente e passato, seguiamo questa ricerca che, più va avanti, più approfondisce un lontano passato mai completamente scordato e sepolto. Ovviamente, il passato di Damian s’intreccia con quello del nostro narratore, primo colpevole d’aver fatto entrare la serpe in seno alla sua ricercata e ristretta cerchia di amici e conoscenze della upper class britannica.

Vorrei soffermarmi un attimo sulla figura del narratore. Come scrivevo poco sopra, non ha nome – o comunque viene apostrofato per nome così rare volte che non sono davvero riuscita a ritrovarlo, nonostante abbia cercato per una buona mezz’ora con il naso a fior di pagina. Comunque, a prescindere dell’esistenza o meno di questo nome, ciò che colpisce è il dato inconfutabile che è lui, il nostro narratore, a raccontarci, a farci vedere quel che succede e a riprendere pezzi del suo passato, ma non è il protagonista. Non lo è ora e non lo era nemmeno nel passato. Il vero nucleo, il fulcro di tutto è Damian… e, da un certo punto di vista, è triste e deprimente questa “testimonianza” del nostro narratore, illuso di conoscere una determinata realtà e – magari – anche d’aver una determinata “influenza” tra i suoi vecchi amici e si ritrova, invece, schiacciato dal ricordo di Damian, a scoprire che non è lui ad aver inciso così tanto nelle vite degli altri.
Voglio dire: anche il dottor Watson, pur non essendo il protagonista, partecipa alle “scorribande” di Holmes. Qui no. Qui il narratore è solo un mero testimone, uno spettatore… un po’ come noi. Non ha né arte né parte; è qui solo perché Damian lo ha richiesto.

Comunque, a parte questo aspetto che, sebbene deprimente, è molto ben riuscito per la caratterizzazione del personaggio del narratore, ci sono alcuni punti che mi hanno lasciata perplessa; altri che, viceversa, ho apprezzato.
Quindi, procediamo con calma e partiamo dalle note positive: la ricostruzione della Londra “bene”, dei circoli e dei party altolocati, della Stagione, degli inviti e delle liste, delle amicizie giuste “scelte” con lo zampino dei genitori, dei passaggi di ragazza in ragazza (per i maschi) e di ragazzo in ragazzo (per le femmine), dell’ipocrita cordialità, lo snobismo, la supponenza e molti altri mali dei nobili di un tempo (atteggiamento che alcuni figli sembrano aver ereditato dagli avi)… Insomma, in generale, perché non posso scrivere una lista della spesa, possiamo dire che la “ricostruzione storica” delle classi “privilegiate” inglesi è davvero ben realizzata e fornisce uno spaccato realistico e immagino anche reale (non dimentichiamo, infatti, che Fellowes è barone) di questa nobiltà, alla quale non si risparmiano frecciatine.

Per il resto, tuttavia, si tratta di una vastissima considerazione, di cui alcuni aspetti sono anche condivisibili, sui giovani, la movida e i divertimenti moderni, la chirurgia estetica, il ’68 inglese (ma solo per la nobiltà), il crollo della struttura familiare (problema non solo inglese), eccetera eccetera.

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A queste perle di saggezza gratuita si aggiungono anche tanti, tantissimi dettagli sulla vita, i costumi, gli ambienti, i vizi e i peccati della upper class inglese. Buon per loro e buon anche per Fellows, ma forse sarebbe stato più opportuno scriverci sopra un saggio e non un romanzo.
Il saggio è un giusto contenitore di tutta questa sfila di informazioni, anche curiose e interessanti… per carità (ho personalmente apprezzato questo sguardo sulla nobiltà di un tempo), ma sono dettagli ridondati. Perché nel romanzo devi anche raccontare una storia. Il romanzo è difficile per quello: oltre a creare dei personaggi verosimili, oltre a realizzare uno sfondo credibile sul quale smuoverli, è necessario anche pensare una storia. E qui la storia si riduce a una mera ricerca per esclusione.

Cinque donne per altrettanti ipotetici figli/e (ovviamente, ti lascio immaginare chi è colei… considerando che, con le prime canditate, la storia si sarebbe spenta dopo qualche pagina… insomma, non è per nulla difficile puntare alla “colpevole”… il nostro Baxter poteva scegliere qualcuno di più vispo, visto che ha a sua disposizione segretarie e investigatori e quant’altro e lo stesso narratore ammette di essere sempre stato un po’ lento in queste faccende… tra parentesi, la scusa è quella di mantenere anonimato).
Attenzione però: sono più di 400 pagine nelle quali la ricerca è solo il pretesto (a me così è parso) per dipingere un interessante affresco della upper class
Per questo, a mio modesto parere, sarebbe stato più interessante un saggio… che non avrebbe implicato il drammatico problema di creare una storia né avrebbe ingenerato aspettative di intreccio nel lettore.

Perché, purtroppo, lo devo ammettere: a me la storia non ha preso per nulla. Questa ricerca è lenta, noiosa, per nulla avvincente (come invece occhieggia il Times dalla copertina: «un nuovo avvincente romanzo […]»… anche no). Tolte le parti di considerazioni antropologiche, non c’è un colpo di scena, un momento di tensione, un carica avvincente che ingeneri curiosità nel lettore. L’unico momento “curioso” è l’ultimo capitolo, in cui si spiega finalmente cosa diavolo è successo nella vacanza in Portogallo. E, dopo averla menata per tutto il romanzo, direi anche che una spiegazione è dovuta; anche se poi non è che sia successa tutta ‘sta tragedia e, sostanzialmente, viene rimarcato il comportamento del c*** nei confronti del narratore da parte di Damian.

Ora, non posso non ammetter d’aver visto il Julian Fellowes di Gosford Park e Downton Abbey con le tematiche riprese della guerra “livellatrice” di classi, della servitù dalle mille orecchie, del matrimonio compiacente e di comodo, delle simpatie “convenzionali”. Con la differenza che, in queste due realtà in cui Fellowes è sceneggiatore, la trama ha una maggior resa. C’è un intreccio, c’è una costruzione della storia articolata; cosa che qui, secondo me, manca. La storia è avvincente lì; non qui.

In conclusione, scritto molto bene (e, quindi, ottima la resa della traduzione; anche se non condivido in pieno la scelta del titolo con l’intrusione dell’articolo indeterminativo) e ottima la realizzazione del clima e degli ambienti della upper class inglese.
Se cerchi delle curiosità sul mondo dei ricchi tra gli anni ’60/’70, sotto certi aspetti non così diverso dall’attuale, è un libro davvero interessante; ma non prenderlo in cerca di una storia.

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