Anatomia di un delitto recensione

recensione anatomia di un delitto

Titolo originale: Flesh and Bones
Anno di pubblicazione: 2007
Autore: Jefferson Bass
Genere: Thriller
Titolo in Italia: Anatomia di un delitto
Anno di pubblicazione ITA: 2007

In Tennessee, esiste una fabbrica sui generis, gestita dall’antropologo forense Bill Brockton (già protagonista del primo libro che ha portato alla ribalta i suoi creatori: Rigor Mortis); si tratta della Fabbrica dei Corpi. In quest’area, circondata da un primo cancello con reticolato in cima ed un secondo in legno per schermare la vista ad eventuali curiosi, si tengono studi ed esperimenti sui cadaveri. Corpi donati alla scienza o non reclamati dalle famiglie vengono usati per meglio comprendere meglio i processi di decomposizione e tutti gli altri fattori che possano aiutare, con sempre maggior precisione, a risolvere i casi della polizia. Ed è proprio quello che Bill sta facendo in questo momento con la sua assistente Miranda. Devono sistemare il corpo di un uomo in cima ad una collina, in un posto abbastanza isolato, vestirlo in abiti femminili, truccarlo pesantemente, aggiungere una vistosa parrucca bionda, legarlo ad un albero e capire il motivo per cui si è decomposto in una maniera così anomala (le gambe poco sotto il ginocchio sono, infatti, ridotte quasi all’osso, mentre il resto del copro presenta i normali segni di decomposizione). Quello che non sanno è che Jess Carter, il medico legale che si occupa del caso e che gli ha chiesto aiuto, ha un altro macabro particolare da aggiungere a questo quadretto già inquietante. Ovviamente, poi le cose si faranno più intricate e lo stesso Bill sarà compromesso.

Il libro è diviso in due parti. La prima, che a mio parere poteva tranquillamente essere ridotta, senza che per questo la trama ne risentisse, consta di 188 pagine, in cui, sostanzialmente, non succede nulla. Diciamo che sono pagine in preparazione alla vera vicenda. Potrete leggere della modalità con cui gli americani preparano una bistecca su di una carbonella riscaldata al microonde, di strade di cui non avete mai sentito parlare (e le conseguenti descrizioni di dove i personaggi girano a destra o a sinistra con le loro macchine sono molto lunghe e precise), di come i bambini alle elementari già imparano a creare una presentazione sulle tartarughe in power point e dei rischi di internet. I dialoghi tra i personaggi sembrano presi da campagne pubblicitarie o di sensibilizzazione per un uso corretto di internet, il rispetto della diversità e dei diritti civili, oppure rievocano improbabili descrizioni particolareggiate di eventi che i protagonisti già conoscono, poiché vissuti dagli stessi in prima persona, quindi, proprio non si spiega questa morbosa necessità di ricordarne di nuovo tutti i dettagli con dei dialoghi diretti fra loro (ad es.: “ricordi quando siamo andati a quel bar?” Sì, certo. Sono passato io a prenderti in auto, abbiamo parcheggiato in quella strada, perché non c’era posto. Poi ci siamo diretti al bar. Tu hai preso una birra, io le noccioline. Abbiamo visto la partita” ^^’). La seconda è la parte realmente interessante, quella dove il libro inizia davvero a presentare i contorni di un thriller (se non fosse che, rispetto alla prima parte, le cose sono un po’ gettate lì rapidamente). I dialoghi e gli eventi si fanno un po’ più incalzanti, anche se prevedibili.
Il mio voto è globale sull’intero libro; devo, però, precisare che su di esso ha inciso molto, dato che si tratta di più di metà del libro, e in maniera negativa, questo antefatto di 188 pagine davvero troppo prolisso e pieno di dialoghi poco realistici e “montati”, il finale “all’americana” (dal quale, in verità, mi aspettavo di più) e la prevedibilità dei colpevoli (considerando che si tratta di uno pseudonimo che nasconde due autori: il giornalista Jon Jefferson e l’antropologo forense Bill Bass).

Voto: 2,5/5
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