Non lasciarmi andare recensione

recensione Non lasciarmi andare - CohenTitolo originale: J’aurais préféré vivre
Anno di pubblicazione: 2007
Autore: Thierry Cohen
Titolo in Italia: Non lasciarmi andare
Anno di pubblicazione ITA: 2008
Genere: Romanzo

Lo premetto: il libro non mi è particolarmente piaciuto. Mi è sembrato, come dire, una semplice storiella: parecchi i luoghi comuni, comportamenti dei personaggi un po’ troppo fuori dal seminato e, alla fin fine, anche un po’ troppo prevedibile. Ben inteso, dal mio punto di vista, non mancano i lati positivi: primo fra tutti si legge agilmente. Sono solo 199 pagine, quindi in un pomeriggio si inizia e si finisce. Punto secondo, sono solo 10€ (che, però, a parer mio, comunque, potrebbero essere spesi in qualcosa di più interessante e meno scontato).
Venendo a noi. La storia comincia in modo un po’ melenso alla Nicholas Sparks (per chi non lo conoscesse da suoi libri sono stati tratti anche numerosi film: “Le parole che non ti ho detto”, “I passi dell’amore”, “Come un uragano”…): Jeremy, il nostro protagonista, decide, in occasione del giorno del suo ventesimo compleanno di dichiararsi all’amica di una vita, Victoria, (che lui ha sempre e profondamente amato – nonché spiata dalla terrazza (?) -, nonostante lei abbia una spiccata predilezione per l’uomo macho duro e puro). Ed ecco che arriva subito la prima caduta di stile nello scontato: finita quella che succcessivamente verrà definita una dichiaraziona d’ammmore favolosa (cinque stelle!, sfortunamente non riportata nel libro), arriva uno dei tanti macho che si sono succeduti nel corso degli anni alla corte di Victoria (questo, però, è il fidanzato) con le classiche battute imbarazzanti (“Questo è Hugo, il mio fidanzato“… come se ci fosse bisogno di specificare e rigirare ancora di più il dito nella piega ad un disgraziato che già è preda della più rossa vergogna). Jeremy torna a casa con la coda tra le gambe e, incapace di vivere senza l’amata, decide di farsi un bel drink di droghe. Finisce all’ospedale. E si risveglia un anno dopo in occasione del suo compleanno al fianco della bella Victoria, senza ricordarsi alcunchè dell’anno appena trascorso.
A questo punto, è un semplice susseguirsi di giornate (sempre il giorno del suo compleanno, ma senza cognizione di causa: a volte un anno, a volte sei, a volte di più), in cui Jeremy si risveglia, affacciandosi per ventiquattrore alla sua vita solo per vedersela sfuggire di mano. (**Attenzione arrivano gli spoilers**) Non ha più rapporti con i suoi genitori, la stessa relazione con Victoria si deteriora terribilmente (la tradisce, tra le altre, anche con la donna del suo – di Jeremy – migliore amico), i figli che nascono dal loro matrimonio non hanno quasi nessun rapporto con il padre. L’unica cosa che Jeremy può fare è quella di proteggere le persone che ama dall’altro lui, quello che sta distruggendo la sua vita. Così si autodenuncia (un amico dell’altro se stesso gli aveva chiesto, proprio in giornata, di tenere in custodia della droga; quando si dice la fortuna!) e finisce in prigione (dodici anni per detenzione di droga… va bene che magari da noi la giustizia a volte fa un po’ ridere e la storia è ambiatata in Francia, ma, diamine!, per avere dodici anni di reclusione quanta gliene aveva portata l’amico? Un bastimento?). Nei brevi momenti che gli sono concessi, cerca di mettersi in contatto con Victoria e informarla su quello che gli sta succendendo (e lei, quasi quasi, ci crede e, per un periodo, lo fa ricoverare in un istituto psichiatrico) e riesce persino a comunicare con un rabbino, al quale racconta la sua storia (e anche questo lì per lì, come se fosse tutto nella norma, quasi capisce quello che sta succedendo, ma non lo dice, almeno non prima di aver indagato… come se, del resto, Jeremy avesse tempo da perdere o la certezza di tornare l’anno dopo). Tanto faticare per concludere semplicemente con un altro clichè: suicidio –> offesa a Dio –> punizione divina. Ovvio, quindi, che alla fine di tutto ci sia la redenzione e che i pochi sprazzi sulla sua vita erano lì solo per mostrargli le conseguenze della sua scelta (la rinuncia alla vita). Va bè…
Non so, mi sarei aspettata più un ravvedimento operoso, attivo, in cui effettivamente il protagonista si sforza, agisce, comprende davvero il valore negativo della sua rinuncia alla vita, di quello che potrebbe perdere (sostanzialmente, da come va a scatafascio la sua vita, non so quanto uno capisca quello che effettivamente perde)… Invece, Jeremy non fa altro che svegliarsi di tanto in tanto e fare il punto della situazione della sua vita, chiedendo informazioni al primo che si trova davanti (la moglie solitamente, ma anche il figlio di sei anni che lo odia, senza che nessuno riputi un po’ sospette tutte le domande, ma anzi accetti remissivamente il dato che, accidenti, forse papà non è papà). Va bè…


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