Lo schiavista recensione

lo-schiavistaTitolo originale: The Sellout
Autore: Paul Beatty
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 2015
Titolo in Italia: Lo schiavista
Anno di pubblicazione ITA: 2016
Trad. di.: Silvia Castoldi

Bonbon (anche detto Venduto) ha avuto un’infanzia particolare a Dickens, sobborgo-ghetto(?)-zona-disagiata di Los Angeles.

Il padre, un po’ – molto – infognato con la psicologia, lo ha sottoposto a quasi ogni genere di esperimento sociologico – il cui esito è stato per il nostro povero Bonbon spesso infausto – e gli ha fornito un’educazione domestica.

Il tutto nell’ottica di aiutare il figlio a orientarsi, galleggiare e sopravvivere in questo mondo in cui se sei di colore e sei fermato dalla polizia durante un semplice e innocente controllo, sei comunque colpevole e passabile di pallottola in corpo.

Il padre, inoltre, ha un ruolo ben preciso all’interno del ghetto/sobborgo: quello di sussurrare ai concittadini, i quali, quando sbroccano e minacciano di uccidersi/uccidere devono prima passare dalla negoziazione di F.K. Me (alias il padre di Bonbon). Alla sua morte, il figlio, nonostante la sua idea sia quella di continuare pacificamente e tranquillamente con la sua fattoria, si ritrova suo malgrado a dover proseguire l’eredità paterna di sussurratore.

Tuttavia, una serie di coincidenze, piani e disegni astrali poterà Bonbon: 1) a diventare un “felice” proprietario di schiavo nero (nome Hominy Jenkins) e 2) a riportare il segregazionismo nella cittadina/sobborgo di Dickens.

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Oh, erano mesi (mesi!) che volevo leggere questo libro, ma riuscire a ottenerlo dalla  bliblioteca è stato un calvario di prenotazioni non aggiornate, disponibilità non comunicate, ect.
Alla fine, per un colpo di fortuna, torno vittoriosa.

E con questa aspettativa pompata da mesi ho anche cominciato la lettura… ma, complice anche il protagonista che si fa una bella fumata subito nelle prime pagine con il benestare degli agenti di polizia che lo hanno in custodia e poco prima di cominciare la sua udienza d’appello, non è che ci abbia capito granchè (eh, lo so… partiamo bene!).

Alcune considerazioni sull’America moderna e sulle sue – tantissime – contraddizioni sono più che condivisibili (soprattutto in questo periodo), ma fatico a trovare un senso ad alcuni passaggi, ad alcuni eventi – passati o trapassati – che si mescolano fra loro, alcuni personaggi che arrivano ma sono solo ricordi o frutto della fantasia. E poi considerazioni sconclusionate, trip mentali, incontri-scontri… confesso d’aver avuto parecchia difficoltà a dare un senso a tutto.

Tant’è che mi sono son detta: se questo è solo il prologo stiamo a posto!

L’udienza di appello di fronte alla Corte Suprema corrisponde all’alpha e all’omega della storia, la cui parte centrale è un grande flashback per arrivare a spiegare l’inizio del libro, cioè come ci siamo ritrovati davanti alla suddetta Corte Suprema.

Seguono, quindi, capitoli dedicati ad abusi psicologici, reali esperimenti scientifici rimaneggiati e riadattati “a beneficio” del nostro giovane protagonista, un’infanzia rovinata, un’adolescenza sconquassata, cadaveri caricati sul cavallo in perfetto stile cowboy, crisi economica, boom di laureati-disoccupati, gangs di latinos e di afroamericani.

Insomma, in altre parole seguiamo la vicenda di Bonbon (per la cronaca, si tratta di un soprannome… il nome vero non ci è dato conoscerlo) nella cittadina di Dickens covo di violenza, precariato, ignoranza, sogni infranti, scarse aspettative di vita e pregiudizi razziali.
Da lì, il passo a farsi come schiavo un malato di Alzaheimer è davvero breve… breve per il nostro Bonbon, a quanto pare.
A onor del vero Hominy – ex simpatica canaglia, la famosa serie TV con Alfa Alfa a capo della combriccola – ci tiene davvero a esser schiavo e pare avere un forte bisogno di attenzioni e “premure” all’insegna del razzismo… frustate comprese. E tutti gli sforzi del suo “padrone” di liberarlo sono vani.

L’idea centrale è quello di riportare in vita una città, Dickens appunto, misteriosamente privata di tutti i pittoreschi cartelli di “Benvenuto a…“, privandola così di confini visibili e dell’identità sua e dei suoi abitanti.

Ora basta combinare i due aspetti (schiavo nero e città declassata) per ottenere il fulcro del libro: ridonare a Dickens la sua unità attraverso la segregazione. Uniti dall’odio e dai soprusi subìti, tutti i cittadini di Dickens ritrovano la giusta condotta, riscoprendo speranze e la loro unità di collettività. La voglia e la necessità di dimostrarsi, in un certo qual modo, migliori, di sfatare i pregiudizi e di restituire le offese e i torti innalza la segregata cittadina di Dickens a nuovi livelli di benessere, di sicurezza e di standard sociali.

Bonbon (anche detto Venduto) riprende, quindi, l’opera del padre, primo sperimentatore sociale anti-segregazionismo, pro-black-power e uomo-che-sussurra-ai-neri di Dickens, invertendone però gli obiettivi.

Ora, come scrivevo sopra, alcune considerazioni, scritte anche un una certa dose di sarcasmo, sono condivisibili. Ci sono alcune parti, colme di ironia e cinismo, che ho davvero apprezzato molto. Altre contengono considerazioni davvero attuali mettendo in luce alcune ipocrisie e contraddizioni del mondo moderno. È il caso, ad esempio, delle discussioni sulla censura dei libri come “Huckberry Finn“, cosa realmente accaduta di recente in una cittadina americana (dalla quale, per lo stesso motivo, è stato bannato anche “Il buio oltre la siepe“. Qui i dettagli).

Riporto le parole di Beatty: «Perché incolpare Mark Twain del fatto che tu non hai la pazienza e il coraggio di spiegare ai tuoi bambini che la parola che comincia per n esiste, e che nel corso delle loro piccole vite protette potrebbe capitargli un giorno di sentirsi dare del “negro” o, peggio ancora, di abbassarsi a dare del negro a qualcun altro? Nessuno si riferità mai a loro con l’espressione “piccoli eufemismi neri”, perciò, benvenuto nel lessico americano, negro! […] È questa la differenza tra la maggior parte dei popoli oppressi del mondo e i neri americani. Gli altri giurano di non dimenticare mai, mentre noi vogliamo cancellare tutto dalla fedina penale, sigillarlo e archiviarlo per l’eternità».

Il concetto è che al razzismo non si scampa… nemmeno nell’America di Barack Obama. Ma, invece, che nascondercisi dietro per giustificare le scelte sbagliate, Beatty invita invece a reagire e a non piangersi addosso.

Un paragrafo a parte lo meritano le Simpatiche canaglie, serie TV in onda negli anni ’20/’30 e di recente tornata in giro con un adattamento cinematografico. La serie è stata un cult per anni, sia come “film muto” sia con l’arrivo del sonoro, ma è stata anche molto discussa. Sebbene la serie possa vantare il primato di aver fatto recitare in un unico gruppo bambini bianchi e di colore, oggetto della diatriba sono gli stereotipi razziali – non solo afro, ma anche messicani, italiani, ect. E posso comprendere perché nel libro rivista un ruolo centrale.

Tuttavia, a queste parti più o meno riflessive, ne seguono altre – molte – all’insegna del surrealismo, dell’assurdo, della scelta di elementi provocatori e paradossali; altre ancora colme di riferimenti – almeno immagino – sono di impossibile comprensione per chi non è americano e non abbia avuto almeno una rapida sortita in zone disagiate.

La presenza di questi aspetti rende la comprensione della storia ostica; il seguire la vicenda complesso.

Lo stesso dicasi per i personaggi volutamente stereotipati e dai comportamenti provicatori, assurdi e surreali.

La storia, la vicenda è poi solo il pretesto per tutta quella serie di considerazioni cui ho già accennato, quindi non ci sono grandi sorprese, grandi plot o grandi slanci narrativi. Tanto che manca una vera e propria conclusione (e a me i libri senza conclusione non mi sconfinferano).

Ricordi quando, simile a un disco rotto, ripeto che lo stile telegrafico (soggetto-predicato-complemento) non mi piace? Bene, confermo quanto detto.
Dall’altro verso, però, non riesco a digerire nemmeno il soliloquio qui riprodotto in frasi chilometriche, alcune difficili davvero da seguire.
Questa corposità nello stile di scrittura aumenta – a mio parare – il senso di disagio e incomprensione che già rende farraginosi molti elementi della storia.

Ammetto che non è stato facile dare una valutazione a questo libro. Da una parte – ripeto – alcune considerazioni sono più che condivisibili: Beatty mette in evidenza l’ipocrisia, in certi casi il lassismo che pervade la società moderna. Dall’altra parte, però, si tratta di un libro che, in molti punti, non ha nè capo nè coda… e il surrealismo, l’assurdo letterario non è proprio il mio genere (come non lo è nemmeno in pittura… diciamo che io mi fermo agli impressionisti).

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